terça-feira, 26 de agosto de 2008

Roger Schutz, il monaco simbolo dell’ecumenismo

Entrevista com Walter Kasper


D. – Sono trascorsi tre anni dalla tragica morte di fratel Roger. Lei stesso è andato a presiedere le sue esequie. Chi era per lei?

R. – La sua morte mi ha molto commosso. Mi trovavo a Colonia per la giornata mondiale della gioventù, quando abbiamo saputo della scomparsa del priore di Taizé, vittima di un atto di violenza. La sua morte mi ricordava delle parole del profeta Isaia sul Servo del Signore: "Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori" (53, 7). Durante tutta la sua vita, fratel Roger ha seguito la via dell’Agnello: con la sua dolcezza e la sua umiltà, con il suo rifiuto per ogni atto di grandezza, con la sua decisione di non dire male di nessuno, con il suo desiderio di portare nel proprio cuore i dolori e le speranze dell’umanità. Poche persone della nostra generazione hanno incarnato con tale trasparenza il volto mite e umile di Gesù Cristo. In un’epoca turbolenta per la Chiesa e per la fede cristiana, fratel Roger era una fonte di speranza riconosciuta da molti, compreso me stesso. Come professore di teologia e poi come vescovo di Rottenburg-Stoccarda, ho sempre incoraggiato dei giovani a fare durante l’estate un breve soggiorno a Taizé. Vedevo quanto quel soggiorno vicino a fratel Roger e alla comunità li aiutasse a meglio conoscere e vivere la Parola di Dio, nella gioia e la semplicità. Tutto questo, l’ho sentito ancora di più nel momento di presiedere la liturgia delle sue esequie nella grande chiesa della Riconciliazione a Taizé.

D. – Qual è ai suoi occhi il contributo proprio di fratel Roger e della comunità di Taizé all’ecumenismo?

R. – L’unità dei cristiani era certamente uno dei desideri più profondi del priore di Taizé, proprio come la divisione dei cristiani è stata per lui una vera fonte di dolore e dispiacere. Fratel Roger era un uomo di comunione, che mal sopportava ogni forma di antagonismo o rivalità tra persone o comunità. Quando parlava dell’unità dei cristiani e dei suoi incontri con rappresentanti di diverse tradizioni cristiane, il suo sguardo e la sua voce facevano capire con quale intensità di carità e speranza egli desiderasse che "tutti siano uno". La ricerca dell’unità era per lui come un filo conduttore sino nelle decisioni più concrete di ogni giorno: accogliere gioiosamente ogni azione che possa avvicinare dei cristiani di tradizioni differenti, evitare ogni parola o gesto che possa ritardare la loro riconciliazione. Egli praticava questo discernimento con un’attenzione che confinava con la meticolosità. In questa ricerca dell’unità, tuttavia, fratel Roger non era frettoloso o nervoso. Conosceva la pazienza di Dio nella storia della salvezza e nella storia della Chiesa. Mai sarebbe passato ad atti inaccettabili per le Chiese, mai avrebbe invitato dei giovani a dissociarsi dai loro pastori. Piuttosto che alla rapidità dello sviluppo del movimento ecumenico, egli mirava alla sua profondità. Convinto che solo un ecumenismo nutrito della Parola di Dio e della celebrazione dell’Eucaristia, della preghiera e della contemplazione sarebbe capace di riunire i cristiani nell’unità voluta da Gesù. È in questa sfera dell’ecumenismo spirituale che vorrei situare l’importante contributo di fratel Roger e della comunità di Taizé.

D. – Fratel Roger ha spesso descritto il suo cammino ecumenico come una "riconciliazione interiore della fede delle sue origini con il mistero della fede cattolica, senza rottura di comunione con chicchessia". Questo percorso non appartiene alle categorie abituali. Dopo la sua morte, la comunità di Taizé ha smentito le voci di una conversione segreta al cattolicesimo. Queste voci erano nate, tra l’altro, perché si era visto fratel Roger ricevere la comunione dalle mani del cardinale Ratzinger durante i funerali di papa Giovanni Paolo II. Che pensare dell’espressione secondo la quale fratel Roger sarebbe diventato "formalmente" cattolico?

R. – Nato in una famiglia riformata, Roger Schutz aveva fatto degli studi di teologia ed era diventato pastore in quella stessa tradizione. Quando parlava della "fede delle sue origini", egli si riferiva a quel bell’insieme di catechesi, devozione, formazione teologica e testimonianza cristiana ricevuto nella tradizione riformata. Egli condivideva quel patrimonio con tutti i suoi fratelli e sorelle d’appartenenza protestante, con i quali si è sempre sentito profondamente legato. Tuttavia, sin dagli anni in cui era un giovane pastore, Roger ha pure cercato di nutrire la sua fede e la sua vita spirituale alle fonti di altre tradizioni cristiane, oltrepassando in questo modo certi limiti confessionali. Il suo desiderio di seguire una vocazione monastica e con questa intenzione di fondare una nuova comunità con cristiani riformati la diceva già lunga su questa ricerca.

Lungo gli anni, la fede del priore di Taizé si è progressivamente arricchita del patrimonio di fede della Chiesa cattolica. Secondo la sua stessa testimonianza, è proprio riferendosi al mistero della fede cattolica che egli comprendeva certi dati della fede, come il ruolo della Vergine Maria nella storia della salvezza, la presenza reale di Cristo nei doni eucaristici e il ministero apostolico nella Chiesa, compreso anche il ministero d’unità esercitato dal vescovo di Roma. In risposta, la Chiesa cattolica aveva accettato che egli comunicasse all’eucaristia, come faceva ogni mattina nella grande chiesa di Taizé. Fratel Roger ha pure ricevuto la comunione a più riprese dalle mani di papa Giovanni Paolo II, che aveva legami d’amicizia con lui sin dai tempi del Concilio Vaticano II e che conosceva bene il suo cammino nella fede cattolica. In questo senso, non c’era nulla di segreto o di nascosto nell’atteggiamento della Chiesa cattolica, né a Taizé né a Roma. Al momento dei funerali di Giovanni Paolo II, il cardinale Ratzinger non ha fatto che ripetere ciò che si faceva già prima nella basilica di San Pietro, sin dal tempo del papa defunto. Non c’era niente di nuovo o di premeditato nel gesto del cardinale.

Rivolgendosi a Giovanni Paolo II a San Pietro, durante l’incontro europeo di giovani a Roma nel 1980, il priore di Taizé descrisse il proprio cammino e la sua identità di cristiano con queste parole: "Ho trovato la mia identità di cristiano riconciliando in me stesso la fede delle mie origini con il mistero della fede cattolica, senza rottura di comunione con chicchessia". In effetti, fratel Roger non aveva mai voluto rompere "con chicchessia", per dei motivi che erano essenzialmente legati al suo desiderio di unione e alla vocazione ecumenica della comunità di Taizé. Per questa ragione, egli preferiva non impiegare certi termini come "conversione" o adesione "formale" per qualificare la sua comunione con la Chiesa cattolica. Nella sua coscienza, egli era entrato nel mistero della fede cattolica come qualcuno che cresce, senza dover "abbandonare" o "rompere" con quanto aveva ricevuto e vissuto prima. Si potrebbe discutere a lungo sul senso di certi termini teologici o canonici. Per rispetto del cammino nella fede del priore di Taizé, tuttavia, sarebbe preferibile non applicare nei suoi riguardi delle categorie che egli stesso giudicava inappropriate alla sua esperienza e che del resto la Chiesa cattolica non ha mai voluto imporgli. Lì ancora, le parole di fratel Roger stesso dovrebbero bastarci.

D. – Lei vede dei legami tra la vocazione ecumenica di Taizé e il pellegrinaggio di decine di migliaia di giovani in quel villaggio della Borgogna? A suo avviso, i giovani sono sensibili all’unità visibile dei cristiani?

R. – Secondo me, il fatto che ogni anno migliaia di giovani trovino ancora la strada verso la piccola collina di Taizé è veramente un dono dello Spirito Santo alla Chiesa d’oggi. Per molti di loro Taizé rappresenta il primo e principale luogo dove possono incontrare dei giovani di altre Chiese e comunità ecclesiali. Sono contento di vedere che i giovani che riempiono ogni estate le tende e i tendoni di Taizé vengono da diversi paesi d’Europa occidentale e orientale (alcuni da altri continenti), appartengono a comunità di tradizione protestante, cattolica e ortodossa, e sono spesso accompagnati dai loro preti o pastori. Numerosi giovani che arrivano a Taizé provengono da paesi che hanno conosciuto la guerra civile o violenti conflitti interni, spesso in un passato ancora recente. Altri provengono da regioni che hanno sofferto per diversi decenni sotto il giogo di un’ideologia materialista. Altri ancora – e sono forse la maggioranza – vivono in società profondamente segnate dalla secolarizzazione e l’indifferenza religiosa. A Taizé, nei momenti di preghiera e condivisione biblica, essi riscoprono il dono di comunione e d’amicizia che solo il Vangelo di Gesù Cristo può offrire. Ascoltando la Parola di Dio, riscoprono anche la ricchezza unica che è stata donata loro con il sacramento del battesimo. Sì, credo che molti giovani si rendano conto della vera posta in gioco dell’unità dei cristiani. Essi sanno quanto il fardello delle divisioni possa ancora pesare sulla testimonianza dei cristiani e sulla costruzione di una nuova società. A Taizé essi trovano come una "parabola di comunità" che aiuta a superare le fratture del passato e a guardare un avvenire di comunione e amicizia. Di ritorno a casa, questa esperienza li aiuta a creare dei gruppi di preghiera e condivisione nel loro ambiente di vita, per nutrire questo desiderio dell’unità.

D. – Prima di presiedere il pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, lei è stato vescovo di Rottenburg-Stoccarda e a questo titolo ha accolto nel 1996 un incontro europeo di giovani animato dalla comunità di Taizé. Che cosa apportano questi incontri di giovani alla vita delle Chiese?

R. – Quell’incontro è stato in effetti un momento di grandissima gioia e di profonda intensità spirituale per la diocesi e soprattutto per le parrocchie che hanno accolto i giovani provenienti da diversi paesi. Questi incontri mi sembrano estremamente importanti per la vita della Chiesa. Molti giovani, come dicevo, vivono in società secolarizzate. Essi trovano difficilmente dei compagni di strada nella fede e nella vita cristiana. Gli spazi dove approfondire e celebrare la fede, nella gioia e la serenità, sono rari. Le Chiese locali qualche volta fanno fatica ad accompagnare bene i giovani nel loro cammino spirituale. Ed è qui che i grandi incontri come quelli organizzati dalla comunità di Taizé rispondono a un vero bisogno pastorale. La vita cristiana ha certo bisogno di silenzio e solitudine, come diceva Gesù ("Chiudi la porta, prega il Padre tuo, egli che vede nel segreto", Matteo, 6, 6). Però essa ha bisogno anche di condivisione, d’incontro e scambio. La vita cristiana non si vive nell’isolamento, al contrario. Per mezzo del battesimo noi apparteniamo al medesimo e unico corpo del Cristo risorto. Lo Spirito è l’anima e il soffio che anima questo corpo, che lo fa crescere in santità. Del resto, i vangeli parlano regolarmente di una grande folla di persone che erano venute, spesso da molto lontano, per vedere e ascoltare Gesù, e per essere guarite da lui. I grandi incontri di oggi si iscrivono in quella stessa dinamica. Essi permettono ai giovani di cogliere meglio il mistero della Chiesa come comunione, ascoltare insieme la parola di Gesù e fidarsi di lui.

D. – Giovanni XXIII ha definito Taizé "piccola primavera". Da parte sua, fratel Roger diceva che papa Roncalli era l’uomo che più lo aveva segnato. Secondo lei, perché il pontefice che ha avuto l’intuizione del Concilio Vaticano II e il fondatore di Taizé si apprezzavano così tanto?

R. – Ogni volta che incontravo fratel Roger, mi parlava molto della sua amicizia prima con Giovanni XXIII, poi con Paolo VI e Giovanni Paolo II. Era sempre con gratitudine e grande gioia che mi raccontava i numerosi incontri e conversazioni che aveva avuto con loro lungo gli anni. Da una parte, il priore di Taizé si sentiva molto vicino ai vescovi di Roma, nella loro preoccupazione di condurre la Chiesa di Cristo sulle vie del rinnovamento spirituale, dell’unità dei cristiani, del servizio ai poveri, della testimonianza del Vangelo. Dall’altra, egli si sapeva profondamente compreso e appoggiato da loro nel suo personale cammino spirituale e nell’orientamento che prendeva la giovane comunità di Taizé. La coscienza di agire in armonia con il pensiero del vescovo di Roma era per lui come una bussola in tutte le sue azioni. Mai egli avrebbe intrapreso un’iniziativa che sapeva essere contro l’avviso o la volontà del papa. Del resto, una medesima relazione di fiducia prosegue oggi con Benedetto XVI che ha pronunciato parole molto toccanti alla morte del fondatore di Taizé, e che riceve ogni anno fratel Alois in udienza privata. Da dove veniva questa stima reciproca tra fratel Roger e i vescovi di Roma che si sono succeduti? Essa si radica certamente nella dimensione umana, nelle ricche personalità degli uomini coinvolti. In definitiva, direi che veniva dallo Spirito Santo che è coerente in ciò che ispira nello stesso momento a persone diverse, per il bene dell’unica Chiesa di Cristo. Quando parla lo Spirito, tutti comprendono lo stesso messaggio, ciascuno nella propria lingua. Il vero operatore della comprensione e della fraternità tra discepoli del Cristo è lui, lo Spirito di comunione.

D. – Lei conosce bene fratel Alois, il successore di fratel Roger. Come vede l’avvenire della comunità di Taizé?

R. – Anche se l’avevo già incontrato nel passato, è soprattutto dopo la morte di fratel Roger che ho imparato a conoscere meglio fratel Alois. Qualche anno prima il priore mi aveva confidato che tutto era previsto per la sua successione, il giorno in cui si sarebbe rivelata necessaria. Era contento della prospettiva che fratel Alois gli avrebbe dato il cambio. Chi avrebbe potuto immaginare che questa successione si sarebbe dovuta effettuare in una sola notte, dopo un atto di violenza inaudita? Ciò che da allora mi stupisce è la grande continuità nella vita della comunità di Taizé e nell’accoglienza dei giovani. La liturgia, la preghiera e l’ospitalità continuano con il medesimo spirito, come un canto che non è mai stato interrotto. Questo la dice lunga, non solo sulla persona del nuovo priore, ma anche e soprattutto sulla maturità umana e spirituale di tutta la comunità di Taizé. È la comunità nel suo insieme che ha ereditato il carisma di fratel Roger e del quale continua a vivere e irradiare. Conoscendo le persone, ho pienamente fiducia nell’avvenire della comunità di Taizé e nel suo impegno per l’unità dei cristiani. Questa fiducia mi viene anche dallo Spirito Santo che non suscita dei carismi per abbandonarli alla prima occasione. Lo Spirito di Dio, che è sempre nuovo, opera nella continuità di una vocazione e di una missione. È lui che aiuterà la comunità a vivere e sviluppare la sua vocazione, nella fedeltà all’esempio che fratel Roger le ha lasciato. Le generazioni passano, il carisma resta, poiché esso è dono e opera dello Spirito. E voglio ripetere a fratel Alois e a tutta la comunità di Taizé la mia grande stima per la loro amicizia, la loro vita di preghiera e il loro desiderio di unità. Grazie a essi, il dolce volto di fratel Roger ci rimane familiare.

Fonte: L'Osservatore Romano", 15.08.2008 apud Sandro Magister(www.chiesa)